ANTICO MULINO DI PIEDICAVA
DELLA FAMIGLIA ANGELINI DAL 1913
Il mulino è situato in una zona incontaminata e ricca di vegetazione nei pressi del paesino Piedicava di Acquasanta Terme, nel fondovalle alla confluenza dei fossi Arola, (riportato nelle mappe come fosso Sasso) e Cervara, che unendosi diventa fosso S. Lucia il quale confluisce nel fiume Tronto in località Stallo (nei pressi di Ponte D’Arli). Si trova in territorio Marchigiano, nella Provincia di Ascoli Piceno, ma quasi al confine con l’Abruzzo e ai margini del parco nazionale “Gran Sasso-Monti della Laga”. La sua costruzione risale al 1504 come risulta dalle ricerche effettuate da Don Virginio Cognoli pubblicate in un suo libro sulla storia dell’Acquasantano e da Patrizia Castelli la cui tesi di laurea ha come oggetto i mulini ad acqua dell’alta valle del Tronto.
Nel 1913 fu acquistato da Angelini Luigi Raffaele detto Ernesto, che dopo averlo ristrutturato ed in parte ampliato, riprese l’attività molitoria nel 1914, come risulta dalla scritta originale sulla tramoggia. L’attività fu proseguita poi ininterrottamente dal figlio Guido fino a metà degli anni ’60 del secolo scorso, quando a causa del progresso industriale e il conseguente spopolamento delle campagne si verificò l’abbandono di queste strutture. Il mulino di Piedicava però non ha mai smesso di funzionare, per la caparbietà, la passione e la consapevolezza, fin da allora, di avere una struttura storica da salvaguardare, prima del mugnaio Guido poi del figlio Ernesto, l’attuale proprietario, che continua la tradizione di famiglia anche se saltuariamente, rivolta soprattutto alla divulgazione di questa attività nel mondo scolastico e non solo, per far conoscere alle nuove generazioni un pezzo importante della nostra storia.
Il mulino è a due macine, tecnicamente la costruzione è tipica dei mulini delle zone montane, dove non ci sono grandi fiumi, ma fossi a carattere torrentizio con portata di acqua variabile a seconda della stagione, pertanto c’è bisogno di una vasca di raccolta dell’acqua (detta parata), di una condotta forzata (detta canala) e delle pale in legno di quercia a forma di cucchiaio che girano orizzontalmente, le quali essendo ancorate ad un albero anch’esso di quercia trasmettono il movimento alla macina (l’insieme pale-albero è detto ritrecine ed è situato in un vano seminterrato), al piano terra si trovano le due macine, una adibita all’alimentazione umana e una all’alimentazione del bestiame, le pietre durissime, provengono dalla zona della Maiella del vicino Abruzzo. Al piano primo è ubicata l’abitazione del mugnaio, dove si possono ancora vedere strutture come il camino, il forno, il lavandino, le credenze e vari oggetti originali dei primi anni del 1900.
Si servivano di questo mulino, gli abitanti dei paesi Piedicava, Arola, S. Gregorio, Fleno, Torre S. Lucia e Valle D’Acqua situati nel comune di Acquasanta Terme oltre a quelli di Cervara e Colloto situati nel comune di Ascoli Piceno. Il mezzo di trasporto più comune per portare il carico al mulino era l’asino o il mulo, le strade ovviamente erano dei sentieri detti appunto mulattiere, alcuni provenienti da località più comode usavano la traglia, una specie di slitta trainata da una coppia di buoi. Attorno al mulino ruotava la vita dell’uomo, era di vitale importanza perché era li che si trasformava il duro lavoro nei campi, durato un anno, in nutrimento per la sopravvivenza. Era anche il luogo dove le persone si incontravano e siccome spesso dovevano aspettare delle ore, parlavano, raccontavano fatti e si scambiavano opinioni, di conseguenza il mugnaio era sempre quello più informato e ogniuno che ripartiva dal mulino era come se avesse letto un “giornale verbale” avendo la sensazione che il tempo speso nell’attesa della macinatura non fosse stato tempo perso, svolgeva quindi un vero e proprio ruolo sociale.
Maggio 2015
IL MULINO AD ACQUA
Poche strutture dell’industria umana occupano nell’immaginario collettivo e popolare un posto importante e speciale come avviene per il mulino ad acqua. Più che struttura industriale, anche se riferita ad un modello di industria di altri tempi e legata strettamente all’agricoltura, il mulino ad acqua è da considerarsi un “luogo” come tale fisicamente definito e ricco di situazioni specifiche, nonché di elementi di grande bellezza, di grandi suggerimenti poetici, di funzioni e di personaggi che ad esso e solo ad esso appartengono.
L’importanza del legame tra il mulino e la cultura popolare si esprime peraltro attraverso canzoni, favole, proverbi e persino nomi di persona e nomi di luogo. Parlare del mulino e nello specifico del mulino ad acqua, ovvero della struttura molitoria tipica dei territori montani e di pianura dell’Italia intera, è dunque un esercizio culturale di forte presa emozionale per tutte le generazioni dell’attuale società, anche per quelle che ne hanno semplicemente subìto il fascino e la suggestione romantica.
Attualmente possiamo individuare una generazione che ha conosciuto e usufruito del mulino intorno agli anni ‘40 ’50 e ’60 del secolo scorso per poi assistere al loro abbandono, quindi ha un ricordo vivo e diretto, appartengono a questa generazione purtroppo le persone più anziane; una generazione di mezzo che ne ha sentito parlare nei racconti dei propri nonni e genitori, dove alcune persone hanno dei labili ricordi semplicemente perchè quando andavano al mulino coi genitori o i nonni erano troppo piccoli; e un altro insieme di varie generazioni di non più giovani, di giovani e giovanissimi che non conoscono questo pezzo di storia.
L’obiettivo, ambizioso e al tempo stesso fortemente motivante per il mugnaio che ancora fa funzionare uno degli ultimi mulini del Piceno, è quello di consegnare ai ragazzi in età scolare, ma non solo a loro, un frammento di conoscenza delle proprie radici, considerate nei vari aspetti culturale, sociale e ambientale. Parlare del mulino ad acqua, con diretto riferimento all’antico mulino Angelini di Piedicava di Acquasanta Terme (AP), significa necessariamente parlare delle origini dell’agricoltura e della storia della molitura, ma significa anche parlare di dispositivi tecnici di trasmissione del movimento, di strumenti per pesare e misurare, di energia pulita, di relazioni sociali, di mezzi di trasporto e degli aspetti naturalistici riguardanti i vecchi edifici e l’ambiente dei fiumi e dei fossi.
Una visita al mulino ad acqua è consigliabile a tutte le persone, d’ogni età, sensibili al fascino della propria identità culturale e che desideri ricercare, nella memoria, gli elementi e gli insegnamenti per reinventare in modo consapevole ed ecocompatibile il proprio futuro.
PROVERBI SUI MULINI
- CHI VA AL MULINO S’INFARINA (vuol dire che ci si sporca di farina, così come rimangono tracce quando si fa qualcosa di importante)
- TIRARE L’ACQUA AL PROPRIO MULINO (fare i propri interessi)
- ACQUA PASSATA NON MACINA PIU’ (il passato non ritorna)
- I MUGNAI SONO GLI ULTIMI A MORIR DI FAME (avevano sempre un po’ di farina per il pane)
- FARINA DEL PROPRIO SACCO (quello che si fa è opera propria)
- LAVORA COME LA MACINA DI SOTTO (si dice di uno che non lavora, infatti la macina di sotto è quella ferma)
- CHI E’ PRIMO AL MULINO, PRIMA MACINA (chi è più sollecito, finisce prima il lavoro)
- LASCIA CORRERE L’ACQUA AL SUO MULINO (lasciare che le cose seguano il loro corso)
- SENZA ACQUA IL MULINO NON MACINA (con niente, niente si ottiene)
- BISOGNA MACINARE QUANDO PIOVE (approfittare delle occasioni favorevoli)
- CHI HA LA FARINA NON HA IL SACCO
- CHI HA IL SACCO NON HA LA FARINA
- CON LA SOLA FARINA, NON SI FA IL PANE (per fare qualcosa non basta mai una cosa sola, esempio: ci vuole anche acqua e lievito)
- LA FARINA DEL DIAVOLO VA TUTTA IN CRUSCA (quello che si fa disonestamente, in qualche modo prima o poi ci verrà tolto)
Maggio 2015
IL MUGNAIO
Se il mulino era un ingenium già conosciuto nell’Antichità, la figura sociale del mugnaio è la vera invenzione medievale. Si tratta di un personaggio ambivalente: egli era più colto della media e generalmente più ricco, pur appartenendo, di fatto, al popolo minuto e non godendo di particolari privilegi. Il mugnaio era depositario di un bagaglio di conoscenze empiriche sulle acque e i cereali, sulle pietre e la carpenteria che lo innalzava sul resto della comunità e che era tramandato di padre in figlio. Era uso, infatti, ritenere che nessuno potesse essere un buon mugnaio senza avere il padre nel mestiere. Quando possibile, l’unica soluzione per entrare in questa ristretta cerchia, quindi, era sposarne la figlia che era per questo considerata un ottimo partito. Il mugnaio era un funzionario pubblico, soprattutto nelle città, ed era sottoposto a controlli molto stretti, previsti dagli Statuti Comunali. Inoltre, poiché molto spesso il mulino era di proprietà dell’aristocrazia, il mugnaio era una figura intermedia tra il potere territoriale e la popolazione, fatto che lo rese ben presto un facile capro espiatorio del malanimo dei suoi clienti. Ciò nonostante, egli era ben conscio della propria importanza e gli abiti e la cuffia, coperti di un impalpabile velo di farina bianca, erano segno di distinzione. Le comunità badavano a regolamentare l’attività dei mugnai attraverso registri in cui s’inscrivevano i professionisti, che erano costretti a prestare giuramento nelle mani delle autorità. Interi capitoli degli Statuti erano dedicati all’arte molitoria. Tali leggi variano leggermente da comunità a comunità, ma alcune sono fisse e immutabili:
• il mugnaio deve tenere presso il mulino l’unità di misura del proprio compenso vidimata e controllata periodicamente dalle autorità;
• il mugnaio non può lavorare di notte o lasciarsi lavoro arretrato per il giorno successivo, col rischio di mischiare grani di provenienza diversa;
• il mugnaio deve macinare il frumento di un solo proprietario per volta ed in sua presenza;
• il mugnaio, dopo ogni rabbigliatura delle mole, deve macinare un pugno di grano proprio prima di poter lavorare quello dei clienti;
• il mugnaio non può tenere al mulino altri animali, se non un gatto;
• è il mugnaio ad essere ritenuto responsabile in caso di sospetto di furto e per accusarlo basta la dichiarazione giurata della presunta vittima;
• il mugnaio deve tenere nel mulino uno scrigno con la propria farina, da questo deposito, a cadenze regolari, verrà estratta la quota spettante alla comunità, od al signore. Inoltre da qui il mugnaio dovrà prelevare in caso di ammanchi riscontrati nella farina dei clienti;
• il mugnaio non lavora la domenica, e in questo giorno l’acqua dei canali dei mulini può essere impiegata per l’irrigazione dei campi;
• il mugnaio ha la responsabilità della manutenzione del mulino e di tutte le opere idrauliche che lo alimentano.
Nelle piccole comunità, non era un vero e proprio professionista ad occuparsi del mulino, ma agricoltori un po’ più ricchi della media ricoprivano questo ruolo periodicamente; oppure si creavano consorterie di famiglie che gestivano a turno gli opifici. Il mugnaio, spesso, ricopriva cariche di spicco nella comunità, anche a fronte di una maggiore disponibilità di denaro. Fu così che questa figura intermedia tra il signore e i suoi sottoposti fu circondata presto da una cattiva fama, aiutata, è il caso di dirlo, dalle frequenti ruberie che effettuava nel calcolo del proprio compenso, nonostante molte leggi e giuramenti lo vincolassero all’onestà. All’interno del mulino, legato ad una catena e sigillato dall’autorità competente, vi era un recipiente atto a contenere l’importo esatto della quota di farina che era stata macinata, la molenda o moltura, pari di solito a 1/16. Esso era il cozolio o coppello, che veniva riempito di farina e poi “rasato” con un’asticella apposta, la razoira, fatta ruotare sull’asta centrale della tazza, o bastoncello.
Nonostante i molti vincoli, però, il mugnaio era ritenuto un ladro e un poco di buono. Parte di questa fama è immeritata, poiché il malanimo era esacerbato dal fatto che, in tempi in cui la farina era un bene prezioso, la trattenuta era spesso vissuta come una vera e propria rapina. Sicuramente, tuttavia, la diceria era in parte basata sulla realtà dato che per il mugnaio era facile far “sparire” piccole quote di farina in barba ai controlli. Si pensi, ad esempio, alla volanda, la farina finissima e impalpabile che si disperdeva durante la lavorazione e che il mugnaio poteva in seguito raccogliere. Per evitare questo genere di “furto”, spesso, si richiedeva che l’arca e il palmento fossero coperti da un telo e si vietava di tenere cassette aperte appese nel mulino. L’equivalenza tra mugnaio e ladro divenne proverbiale: una massima tedesca sosteneva che le cicogne evitino i mulini per scongiurare il fatto che siano loro rubate le uova; “pesare con la stadera del mugnaio” significava fare parti disoneste e così via.
Così il mugnaio divenne un personaggio molto frequente delle novelle medievali, in cui ora prevaleva per la propria furbizia, ora soccombeva dando sfogo all’astio generale che lo circondava. Una nota curiosa, presente in molti Statuti, era quella che, come abbiamo detto, vietava l’accesso al mulino ad ogni animale. Questo perché il mugnaio non potesse incolpare le proprie bestie d’eventuali mancanze del materiale da macinare. Gli unici animali concessi erano il gatto, che proteggeva il frumento dai topi, e l’asino, che aiutava il mugnaio nei trasporti. Nonostante la cattiva fama del suo gestore, in ogni caso, il mulino era un luogo sociale, come la chiesa e la piazza del mercato. Salvo speciali disposizioni, vigeva la regola che chi primo arrivava al mulino, prima macinava. Chi aspettava il proprio turno si soffermava a chiacchierare nell’aia davanti al mulino, che era generalmente riparata da una tettoia o dalla sporgenza del tetto. Il mulino da farina divenne, così, un luogo di ritrovo d’uomini e donne tanto variamente frequentato che le regole monastiche sconsigliavano ai monaci di recarvisi, per non andare incontro a tentazioni.